“L’ho deciso la settimana scorsa, però l’idea l’avevo in testa da molto tempo. Era uno dei grandi rimpianti della carriera, ma io amo la routine: vinsi in Francia la prima volta senza venire al Giro e così non volli modificare un programma già collaudato. Adesso è diverso e colmerò questa lacuna, è il Giro del Centenario, in Italia ho vissuto per quasi cinque anni, ho tanti amici. C’è la possibilità di sensibilizzare ancora di più il vostro Paese sulla lotta al cancro, sono davvero felice. Vengo sicuramente per provare a vincere, c’è la possibilità che il Giro sia l’unica gara a tappe di tre settimane che disputerò. Ancora oggi al Tour ci sono dei dubbi con i problemi che ho con organizzatori, giornalisti e tifosi, potrei essere distratto dalla mia missione: focalizzare l’attenzione mondiale sulla battaglia contro il cancro“.
È Lance Armstrong, pluridecorato campione del ciclismo internazionale, di fronte alla domanda di alcuni giornalisti che gli chiedono come fosse possibile un suo ritorno, a 37 anni e dopo molteplici vicissitudini, al Giro d’Italia 2008.
Non che la domanda fosse non pertinente, ma come spesso accade i veri campioni sono quelli che continuano a sorprenderci con clamorosi e improvvisi ritorni all’attività, con vittorie inattese e impensabili, con sconfitte brucianti o vicissitudini extrasportive che destano scalpore; atleti straordinari che con le loro gesta da sempre infiammano i tifosi di tutto il Mondo.
E Lance non è certo il primo, né credo sarà l’ultimo, a colpire la nostra attenzione per una scelta choc per il livello di competitività sportiva che si è raggiunta oggi, nel ciclismo in particolare.
La mia mente torna ad altri grandi campioni del passato come Micheal Schumacher, più di ogni altro l’emblema del pilota moderno, capace nel corso della sua carriera di “mettere in fila” tutti i record possibili e immaginabili in Formula 1; a Pete Sampras, il tennista che ha dominato la scena internazionale vincendo un numero impensabile di tornei dello Slam e rimanendo al primo posto delle classifiche mondiali per tanti anni; a Roberto Baggio, grande fuoriclasse del calcio nostrano che tutti ricordiamo per la fasi alterne ma straordinarie della sua incredibile carriera sportiva; a Josefa Idem, la canoista del C.C.Aniene seconda per 4 millesimi (se così si può dire) a Pechino 2008 e ancora in attività nonostante i suoi 44 anni, con una gran voglia di “puntare” anche le Olimpiadi londinesi. Penso anche ad atleti più attuali come Phelphs, Tiger Woods, Bolt, gli atleti delle paralimpiadi.
Tutti super-atleti, senza alcun dubbio campioni straordinari.
Ma io credo soprattutto persone fuori dal comune. Persone di talento che hanno capito come mettere a frutto il proprio “dono”, come alimentare uno degli elementi indispensabili per la riuscita: la motivazione, la nostra vera “benzina”.
Se paragoniamo noi stessi ad un’automobile (magari una Ferrari) posso affermare che il nostro Talento corrisponde più o meno all’aerodinamica e al motore della vettura, la nostra testa (quello che pensiamo e decidiamo) corrisponde al pilota, la motivazione è senza dubbio il carburante, la “sostanza” che consumiamo ogni giorno in funzione di quanto “spingiamo” sull’acceleratore.
Ecco è fondamentale capire che è sempre la motivazione a spingere la nostra auto, che per quanto possa essere splendida e performante, rimarrà sempre “ferma ai box” senza un bel pieno di benzina.
Lo sport non è solo “questione di fisico”. E anche la migliore metodologia di allenamento (che è un po’ come lo studio ingegneristico della nostra auto) da sola non è più sufficiente a garantire la riuscita. Laddove per riuscita non dobbiamo intendere solo la conquista di un trofeo, ma anche il superamento dei propri limiti, del proprio “massimo”. Come dimostrano le imprese sportive di tanti atleti, come dimostra la storia di Armstrong.
La straordinarietà della sua scelta è allora da ricercare anche nella sua storia. Forse nella sua storia più privata. Sappiamo tutti che Lance ha dovuto combattere contro una terribile patologia, il cancro, che lo ha colpito già nel pieno della sua carriera professionistica; e sappiamo tutti come abbia trovato dentro di sé la forza per reagire e superare questo ostacolo. Credo che Lance sia l’esempio di come si possa attingere ad una forza d’animo che troppo spesso crediamo di non avere e che invece è dentro ognuno di noi e ci “spinge” verso il raggiungimento delle nostre mete, dei traguardi desiderati. Il ritorno di Armstrong al Giro va oltre il fatto puramente sportivo e mette in evidenza quello che noi psicologi da sempre sosteniamo: l’importanza del “crederci”, la forte convinzione che poggia solo su una grande motivazione. E quella di Armstrong è senza dubbio far vedere al Mondo che ci si può riprendere da tutto, anche ripartendo da zero dopo aver avuto grandi successi e grandi difficoltà. La sua motivazione è dare speranza ad altri.
Si chiama Resilienza e corrisponde nella letteratura scientifica a quella capacità dell’individuo di rispondere a stimoli altamente stressanti in modo nuovo e molto efficace, uscendo dalla situazione negativa e creandone una migliore. Una riuscita, un successo, anche una “salvezza”.
È, in sintesi, l’arte di risollevarsi.
Questo è possibile soprattutto quando abbiamo “fame”, quando sentiamo dentro quel “fuoco che brucia” e che ci spinge verso la meta, quando abbiamo un obiettivo più difficile del precedente, quando disponiamo di un motivo superiore. Ogni volta che ci è accaduto qualcosa che ha segnato o “ri-orientato” la nostra vita, noi sentiamo crescere dentro il bisogno di rifarci; per molti diventa vendetta, per altri diventa una “spinta” incredibile ad andare oltre. Si chiama psicologia della visione.
Ma qual è l’interruttore di questo meccanismo? Quand’è che riusciamo ad attivarci in modo adeguato e a rispondere all’evento critico o stressante?
La risposta non è semplice. Intanto occorre dire che non siamo tutti uguali e alcuni possiedono particolari virtù di ripresa; c’è da considerare poi il fatto che l’educazione ricevuta, il livello di indipendenza e autonomia personale e la presenza di eventuali blocchi o traumi sono fattori determinanti nel determinare una risposta positiva, intensa e molto efficace. Penso a Federica Pellegrini, che preparo ormai da due stagioni, e che ho conosciuto e stimato per la sua forza d’animo che l’ha portata, con il supporto di una preparazione mentale psico-fisica completa e nonostante le difficoltà incontrate (pensiamo alla gara dei 400 s.l.), a poter esprimere tutto il suo enorme talento. E a vincere un titolo olimpico fino a poco tempo prima tutt’altro che sicuro.
L’interruttore è quasi sempre una situazione altamente stressante e “pericolosa” (in modo reale o simbolico) per l’individuo, che ne minaccia la “sopravvivenza” o l’autostima, che ne stimola la riuscita. Sento spesso dire ai miei atleti “voglio dimostrare che…” e questo mi tranquillizza perché significa che c’è ancora qualcosa da tirar fuori. È quando un atleta polemizza di continuo, fatica ad applicarsi, cerca scappatoie, che sta mettendo in atto una serie di meccanismi di difesa del proprio “ego” che non lo portano lontano; tutto questo serve a nascondere a se stesso che forse ha paura di qualcosa o che, più semplicemente, non si ha più voglia. Lo stress non è un elemento necessariamente negativo; senza dubbio ci consuma e ci ostacola, ma è dalla tenuta nei momenti di stress che impariamo a contare su noi stessi e a continuare sulla strada intrapresa nonostante tutto. È così, restando sotto stress per un periodo, che decidiamo davvero cosa fare: se andare avanti o mollare, se riuscire o fallire. È così che Armstrong trova sempre nuove sfide da tentare: lui non teme lo stress perché crede in sé e continua finchè non raggiunge quanto desidera.
È importante però comprendere che la motivazione da sola non basta, non è sufficiente e non spiega tutto il comportamento agonistico. Il talento e la preparazione tecnico – atletica sono altri elementi indispensabili. Ma nello sport di oggi tutto questo non basta più, il talento non è tutto.
Senza un’adeguata preparazione mentale nello sport di alto livello si fatica ad emergere e spesso si incorre in vere e proprie crisi sportive dalle quali è difficile uscire perché innescano tutta una serie di meccanismi psicologici molto complessi e profondi, inconsci.
Dico questo perché troppo spesso assisto a realtà uniche ed eccezionali come quella di Lance Armstrong che confermano a mio avviso quanti atleti, giovani talenti, si perdono per strada perché magari non trovano dentro quella forza di cui questo campione è emblema. Non perché non ci sia ma perché non hanno gli strumenti, personali o di esperienza, per scovarla.
Prepararsi mentalmente all’attività di alto livello non è solo risolvere crisi, ma è preparare la propria mente a dare il massimo, a tirare fuori tutto quello che c’è nel momento giusto, a costruire ed allenare alcune caratteristiche psicologiche indispensabili e fondamentali. In sintesi evitare gli autogoal ed esprimere tutto il potenziale.
La storia di Armostrong, per quanto straordinaria, direi che è anche unica (pensiamo a quanti atleti sono caduti senza più rialzarsi, per es. Mike Tyson o Martina Hingis). Questo significa che anche la sua esperienza di vita personale ha avuto un ruolo fondamentale nella capacità di quest’uomo di non fermarsi mai, perché la vita lo ha messo di fronte ad una difficoltà che gli ha fatto relativizzare tutto il resto, facendolo “spostare” da un ciclismo professionistico ad un ciclismo “umano”.
Questo atleta non è più solo un atleta ma un uomo che attraverso la sua attività vuole dare un messaggio al Mondo e a tutti quelli che hanno dovuto vivere un’esperienza simile alla sua.
Perché, come dico ai miei atleti, non è campione colui che non cade, ma colui che si rialza.
Come Alessandro Zanardi, anche lui è ormai un esempio, un’icona della possibilità solo umana di risalire. Sempre. Di trovare un nuovo modo per continuare ad esistere. Perché in fondo un colpo della vita non è un destino, ma solo una ferita che colora la nostra storia.